Padre Giulio Cittadini C.O.

"Ripensando Padre Giulio Bevilacqua"

Brescia, 4 Settembre 1990

 

Sono molto grato al nostro vescovo Monsignor Bruno Foresti di aver voluto che all'inizio di questo Convegno diocesano venisse ricordata e ripensata la figura di Giulio Bevilacqua, Padre della Pace, Parroco di S. Antonio e Cardinale di Santa Romana Chiesa, nel XXV della sua pia morte, avvenuta il 6 Maggio 1965.

Di questa imponente figura di prete e di pastore che non cessa di stimolarci con la sua lucida e coerente testimonianza di fede e di carità cristiana cercherò di tracciare qualche semplice linea meditativa, che metta in luce soprattutto la forte e radicale concentrazione di tutta la sua persona nel Cristo.

Rivolgendogli un indirizzo di augurio in occasione del suo ottantesimo compleanno (1961), l'allora Cardinale di Milano Monsignor Giovanni Battista Montini concludeva su Humanitas: "Sì, caro Padre, l'abbiamo capito: Cristo solo, Cristo vivo!".

Ecco: Cristo vivo! Ma quale Cristo è vivo? Il Cristo attuale, risponde Bevilacqua, il Cristo presente, contemporaneo, il Cristo che interpella il nostro tempo; non il Cristo - diceva con una delle sue caratteristiche e sconcertanti metafore - "oggetto" - testualmente! - "da frigidaire".

Non che Bevilacqua, è chiaro, intendesse ignorare il Cristo di sempre, "di ieri, di oggi e di domani; che era, che è e che viene" e neanche la teologia della fede, per la quale questa è memoria del Cristo già venuto, discernimento del Cristo presente e profezia del Cristo che tornerà ("Sperandarum substantia rerum").

Ma la controprova che il Cristo da noi predicato è il Cristo vero e autentico sta nella sua attitudine a entrare in colloquio e a inquietare, contestandolo, il nostro tempo. Il Cristo vero, per Bevilacqua, il Cristo vivo è quello che passa per le nostre strade asfaltate, che si ferma a dialogare proprio con noi, usando le nostre parole, che ci capisce e si fa da noi capire, magari proprio per metterci, come si suol dire, con le spalle al muro.

Da qui la necessità nostra, di noi che vogliamo essere testimoni di questo Cristo vivo, di assumere pienamente la fatica di capire il nostro tempo, di entrare nel suo linguaggio, nelle sue contraddizioni e all'interno di queste inserire il perenne, immutabile annuncio evangelico.

Sterili pertanto per Bevilacqua i lamenti di chi dice: La gente non ci capisce più, non capisce più il nostro linguaggio, parliamo lingue differenti.

Paolo VI, che, come tutti sappiamo, era stato discepolo di Padre Bevilacqua, denuncerà nella sua esortazione apostolica "Evangelii nuntiandi" la frattura esistente tra fede e cultura come uno dei drammi del nostro tempo. Ma come rimediarvi? Paolo VI a questo punto ricorda, di Bevilacqua, le ore quotidianamente passate al tavolino, occupato con i suoi autori preferiti, specialmente i francesi (Blondel, Bergson, Mounier, Maritain, Teilhard de Chardin) con i quali discuteva, è proprio il caso di dirlo viste tutte le sottolineature e le annotazioni apposte sui loro libri, discuteva il "caso seri", Cristo. Egli amava certamente questi grandi autori, questi maestri, che gli insegnavano a comprendere quell'uomo al quale poi lui avrebbe dovuto rivolgere la sua accesa e comprensibile parola di fede, ma, non è quasi neanche il caso di ripeterlo, amare non equivale a cedere, a entrare nei ranghi. Sul Cristo non erano possibili compromessi. Tre, quattro ore di studio ogni giorno non lo fecero mai diventare né libresco né pedante. Prima di tutto perché, come ho già detto, c'era sempre di mezzo il Cristo, da discutere, da capire meglio, con sempre maggiore purezza e pienezza. E poi Bevilacqua le sue idee finiva sempre col viverle tra la gente, confrontarle con la storia, con gli avvenimenti, dibatterle fino in fondo, sempre mirando, al di là delle stesse idee, alla difesa dell'uomo, della sua dignità e libertà.

Il Card. Silvestrini, nella sua commemorazione tenuta alla Pace nel maggio scorso, ha ricordato una testimonianza sul Bevilacqua datata dalla prima guerra mondiale. Un suo compagno di prigionia in Boemia lasciò scritto: "Solo due cose contano per Bevilacqua: Cristo e la realtà. E bisogna farle incontrare". Farò un esempio per illustrare ciò che sto cercando di dire. Nella sua polemica antifascista padre Bevilacqua scrisse la frase che rimarrà forse la più celebre di tutte: "Le idee valgono non per ciò che rendono ma per ciò che costano". Ora, io sono d'accordo con chi ha osservato che tale frase non si può erigere ad assioma etico generalmente valido. Ma era invece proprio nel realismo della situazione in cui la polemica aveva luogo che tale frase rivelava il suo vero senso e la sua grande forza di richiamo morale.

"Cristo, dunque, e la realtà, e bisogna farle incontrare", non certo accomodando il Cristo né benedicendo storicisticamente ciò che avviene, ma cercando il Cristo vero e proponendolo alla coscienza dell'uomo, accettando il linguaggio di quest'ultimo e rispondendo alle sue attese e inquietudini più autentiche. Quanti "equivoci" fra Cristo e l'uomo contemporaneo potrebbero venir dissipati mediante una maggior comprensione reciproca, con uno scavo più profondo! "Cristo e la realtà": per questo principio ideale padre Bevilacqua fu combattente nella prima guerra mondiale, cappellano di marina nella seconda, avversario irriducibile del fascismo e di ogni altra dittatura, parroco di periferia... Per portare "luce nelle tenebre", speranza nella disperazione, presenza di Cristo in tutte le sofferenze umane.

Dal Cristo presente a quello che verrà. La fedeltà al Cristo presente come condizione per la fedeltà verso il Cristo non ancora raggiunto... Come non ricordare qui la sua omelia nel primo e unico pontificale che celebrò da Cardinale nel nostro duomo di Brescia? Il cieco di Gerico! Che cosa è un Cardinale? si chiese. Un cieco, rispose. Un cieco alla ricerca della luce, un cieco che vuole vedere, che grida verso il Cristo. Da qui il suo rapporto con la verità. La verità è ciò che l'uomo ricerca, che non possiede mai, in questa vita, in modo assoluto e totalmente pieno. Ma niente esalta di più il valore della luce che l'essere cieco e non potersene servire per vedere ciò che pure esiste. Inquietum est cor nostrum. La fede non è stasi né appagamento. Agostinianamente, è continua e sempre più avida ricerca, consapevolezza dei propri limiti nell'ansia invincibile di superarli.

Da qui una profonda umiltà. Il Cristo è, sì, presente, in mezzo a noi, ma noi non l'abbiamo ancora conosciuto del tutto. E nel nostro futuro perché la nostra conoscenza di lui e soprattutto il nostro esaudimento del suo comandamento sono ancora troppo imperfetti.

Non che Bevilacqua mancasse di riconoscenza a Dio per le certezze di fede e per il dono delle verità che non poteva non cogliere dentro di sé come grazia e raggiungimento. Anima profondamente religiosa, avvertiva tuttavia con un senso di timore la presenza del mistero. Dio è mistero. Ciò che di Lui possiamo sapere è sempre all'interno di quel molto di più che non possiamo sapere; ciò che di Lui possiamo dire ha senso e valore solo sullo sfondo di ciò che di Lui è indicibile e di cui pertanto si deve tacere. La teologia come discorso fatto nel silenzio, che orienta verso un Dio forse più raggiungibile attraverso le vie dell'esperienza, della carità fraterna: "Hai dato da mangiare all'affamato? L'hai dato a me!".

Una parola ancora sul suo grande amore verso la Chiesa. Come avrebbe potuto non amare la Chiesa di Cristo? La sua sposa, il corpo di cui Egli è il Capo? Non era stata lei, la Chiesa ad annunciargli il Cristo, a battezzarlo nella sua morte e risurrezione, non era essa che lo nutriva costantemente di Lui nella S. Eucaristia? Non era in essa e per essa che egli poteva annunciare e comunicare il Cristo alle anime? Il suo amore era autentico, non fideistico, non ad occhi chiusi, non genericamente apologetico. Era un amore solidale e corresponsabile. Come ogni vero amore, era un amore sofferente... Della Chiesa vedeva, accanto a tutte le ricchezze di cui gioiva, anche tante "piaghe": inadempienze, compromessi, ritardi...

Era comunque, il suo, un amore sempre fedele anche se mai rinunciatario. Amando così la Chiesa, amava moltissimo ciò di cui la Chiesa si serve per annunciare e comunicare il Cristo: la Liturgia, come linguaggio fatto di parole e di segni.

Nella sua omelia tenuta alla Pace durante la S. Messa commemorativa, il nostro Vescovo ha voluto ricordare che Bevilacqua "fu uno dei primi in Italia a capire l'importanza della Liturgia, al centro della quale vide sempre il mistero pasquale, sintesi del cristianesimo. Da qui la particolare cura nel preparare le celebrazioni liturgiche della settimana santa".

All'interno della Chiesa, la sua devozione verso Maria era tenera e forte nello stesso tempo, sempre biblica e cristocentrica. Maria, la madre di Cristo, beata perché ha creduto, che nella sua immensa fede generò il figlio di Dio nella sua mente prima ancora che nel suo corpo verginale... Fu sempre molto deciso contro forme di devozionismo fuorvianti che staccavano la Madre di Dio dal Cristo e quindi dall'uomo e dalla sua storia.

Un ultimo punto di meditazione. Se mi si chiedesse: quale fu la virtù precipua di padre Bevilacqua? Ecco, direi che la virtù, da cui io mi sento da lui più fortemente richiamato, è stata la povertà.

Aveva capito che per seguire Cristo bisognava vendere tutto e darlo ai poveri. Contro il dio mammona tuonava con la forza e l'insistenza del Vangelo. O il Dio di Cristo o il mammona di iniquità...

Laureato in scienze sociali a Lovanio, si era ridotto da parroco a non saper distinguere una tratta da un assegno, a invitare dal pulpito a venire da lui per ritirare un orologio da polso dimenticato ("ma chi l'ha perso dovrà descrivermelo!"). L'orologio poi risultò essere suo. Per quanto mi consta, non lasciò in eredità che qualche banconota lasciata qua e là nei suoi libri come segna pagina. Dava generosamente ai poveri ma sapeva anche spendere molto per abbellire la chiesa (le sue due chiese: prima la Pace, poi S. Antonio). Le suppellettili della chiesa le vedeva come strumenti del suo linguaggio liturgico e in quanto tali le amava moltissimo. Appena terminata la guerra, ricordandosi che provenivo dalle fila della Resistenza, mi ordinò di pernottare in chiesa per fare guardia ai nostri stupendi candelieri d'argento, capolavoro del Grossi, esposti in occasione del Natale. Tuonava contro i templi del dio mammona, le banche, in modo anche un po' avventato, così da far letteralmente arrabbiare il suo confratello padre Marcolini (ma nel mondo filippino è lecito, anzi fisiologico, essere diversi) il quale padre Marcolini sapeva invece servirsi molto bene delle realtà economiche, per dare corpo ai suoi progetti di case e villaggi per la povera gente.

Ma la povertà di Bevilacqua aveva radici molto profonde, era un distacco interiore da tutto ciò che è soltanto relativo e penultimo, così da aggrapparsi all'unica vera e irrinunciabile ricchezza che è Cristo, come lo scalatore si aggrappa alla nuda roccia per salire verso la vetta. Da buon alpino, egli si serviva spesso di questa metafora, mediante la quale esprimeva la sua convinzione più radicale, che cioè l'uomo è povero di tante cose, ma anche e soprattutto di Cristo. Andare incontro a questa povertà, cercare di sollevare l'uomo da tale miseria facendosi "tutto a tutti" egli, Bevilacqua, lo riteneva come l'opera di misericordia più urgente, come il primo servizio di carità affidato ai credenti.

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